Antiemetici. Per sopravvivere allo stato degli eventi ci vuole arte, forza e una dose inesauribile di antiemetici.

Quella che segue è una riflessione scritta più di un anno fa e circolata in forma privata solo tra le mie amiche “ex museali”. E già allora, come è possibile intuire, c’erano badilate di conati di vomito sedati da conversazioni antiemetiche che hanno tamponato questo stato di diffuso malessere, equamente distribuito, ma non annacquato.

Poi, qualche giorno fa ho dovuto ascoltare delle parole che mi hanno fatto correre nelle latrine della vergogna a rigurgitare il mio sdegno.

Oggi è il 5 dicembre di un anno che politicamente ha fatto abbastanza schifo e che dopo i risultati referendari non credo si concluderà tanto meglio. Il mio giudizio è stato quello della maggioranza dei votanti, ma non per questo non temo il domani. Pubblicare queste righe è per me una medicina. O semplicemente un, ancor di più mendace, placebo.

“La mia amica mi inoltra la newsletter del MAXXI, newsletter che con ovvi toni sensazionalistici e accattivanti dichiara che Enel diventa il socio a braccetto del Museo di via Guido Reni. Scorro il testo che mi allega e, sì, c’è proprio scritto che “Enel aderisce alla Fondazione MAXXI ed è il primo privato a divenire socio fondatore del museo, inaugurato nel 2010 e gestito da una Fondazione di diritto privato istituita nel 2009 dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che ne è socio fondatore-promotore.” Di seguito si sciorinano gli evidenti benefici della joint venture: collezione gratis per tutti (ma solo dal martedì al venerdì), abbattimento del 40% dei costi delle luci (Artribune riporta il 50%), realizzato grazie all’utilizzo del LED e alle minori spese di manutenzione e, infine (ma a me sembra già abbastanza lunga sta pippa) consistenti proventi per le attività espositive.

Artribune mostra le stesse sfumature entusiastiche, confermando la presenza di Elisa e Cracco al prossimo “Acquisition Gala Dinner” aggiungendo: “Finalmente il museo si affranca dal suo discutibile catering interno. Che sia un viatico per una ristorazione all’altezza?”

Ecco, da dove vogliamo partire? Qual è la parte più aberrante di tutte queste (vuote) parole? Una su tutte è che l’Enel si fregia di essere innovativa e stare sul pezzo del risparmio energetico. Ma non dovrebbe essere prassi per un’azienda che si occupa di questo? Il risparmio, poi, lo garantisce solo perché partner di una struttura e quindi risvolto positivo e elitario in funzione di una scelta del genere? Non dovrebbe essere una politica da adottare sempre e per tutte le utenze, visto che una migliore ed efficiente distribuzione di energia garantisce risparmi considerevoli e condivisibili?

Nel caso del museo si spera possa portare anche a una diminuzione del biglietto d’ingresso, che trovo economicamente pompato rispetto a un’offerta di dubbia qualità. Meno male che la collezione è gratis! Ma perché è gratis? Perché qualche eminenza grigia s’è destata e ha scoperto che il MAXXI durante i giorni feriali è occupato solo dai guardasala e dalle balle di fieno rotolanti?

Di cultura ne abbiamo bisogno. Non mi voglio riempire la bocca di frasi fatte o scontate, ma ne abbiamo bisogno perché la vogliamo, la desideriamo e la aspettiamo. Sì, la aspettiamo. Le prime domeniche del mese i musei statali e comunali si riempiono di persone che come me aspettano più o meno diligentemente di visitare spazi convenzionalmente a pagamento. Questo non è un bisogno? Bisogno di crescere, bisogno di nutrirsi, bisogno di imparare. E tutto questo necessita dei Cracco e delle Elise? Non ho niente contro di loro (sto mentendo: Cracco riesce ad essermi ancora più indigesto delle patatine che sponsorizza e con le quali ha combinato inenarrabili schifezze. Elisa, invece, la adoro; mi ha tenuta per mano in tante situazioni importanti e passaggi di vita che m’hanno fatto diventare l’essere sconclusionato che sono), ma non reputo sia un museo, soprattutto durante una acquisitiongaladinner, che non è nient’altro che una raccolta fondi – o crowfunding se vogliamo utilizzare per forza una parola straniera tanto in voga in questi anni – il loro posto. E non perché non valgano, ci mancherebbe. Questo è intrattenimento, puro e semplice intrattenimento. Trovo sacrosante le attività ludiche negli spazi espositivi, ma che siano affini alle opere presentate. In un momento di richiesta di aiuto (perché il crowfunding è essenzialmente questo, un’azione partecipativa dal basso per sopperire alle mancanze dall’alto) si dovrebbero presentare progetti, intavolare discussioni, rendere nota la destinazione dei fondi, e noti, con nomi e cognomi, coloro che materialmente li gestiranno. Se penso a quello che sto scrivendo mi sento un po’ complottista, ma temo che dietro tutto questo ambaradan ci sia solo una fumosa e stordente fuffa. Insomma, ce la stanno incartando, ci stanno raccontando che è tutto molto figo, ma non ci stanno dicendo il perché. Tutto rimane in superficie, tra una ballata e uno spaghetto alle vongole (che, mi raccomando, sia di ottima qualità perché, si sa, al museo ci si va per mangiare sopraffino e dire urbi et orbi di averlo fatto), vorrei capire cosa resta. Non credo sia necessario essere delle storiche e storici dell’arte per formulare il pensiero, sicuramente epidermico e senza grandi prospettive, come questo che ho appena fermato. Reputo, invece, sia fondamentale una minima dose di criticità per leggere tra le righe e saper mescolare, con lucidità e autonomia, opinioni e punti di vista differenti per produrre una personale linfa mentale. E l’arte, se è vera e onesta, aiuta anche a far questo. Stimola la capacità di osservazione e induce alla riflessione. Ci fornisce la valigia dove conservare i nostri valori e con questi smascherare le bufale che i furbetti di turno vogliono somministrarci, magari accompagnate con ottimo pane di Kamut, che non è nient’altro che un marchio registrato e costoso per indicare il grano khorasan…”

Potrei scegliere tra tante immagini quella più adatta per questo post, ma non voglio immagini, non voglio opere d’arte e non voglio bellezze. La loro assenza ha per me il significato di una piccola, forse inutile, forma intima di protesta.

La malinconia sta a settembre come il masochismo sta alla domenica

Il masochismo si manifesta in silenzio, senza preavvisi e in completa libera inconsapevolezza. Si manifesta in una domenica di inizio settembre dentro una macchina rovente che flemmatica scivola sulla città, percorrendo spazi e tempi già attraversati e vissuti. Si manifesta nella scelta di guidare lungo le vie più belle, quelle architettonicamente più ricercate e decorativamente più curate. Si manifesta aprendo i finestrini e lasciando entrare l’aria calda del quasi autunno romano mentre si lambisce in sordina il Tevere, risorsa e scapito emotivo di tutti i ricordi che vi affondano e noncuranti riemergono. Riemergono con masochistica tempra e indefessa resistenza.

Roma è un’attrice alla quale negli anni affibbiamo nomi e storie. E lei si cala nei panni che le imponiamo e indossa i nomi di coloro che amiamo. Ancora adesso Roma interpreta il ruolo di un personaggio uscito di scena mesi fa. Non lo lascia e si trascina indolente sulle tracce di un passato andato. Un passato che a settembre – questo settembre – è ancora più atroce. Perché a settembre dello scorso anno si è girata l’ultima puntata di una serie che credevo infinita e che non lo è stata. Lo fosse stata – infinita – sarebbe diventata, appunto, masochistica. Ha vinto fortunatamente l’amor proprio. Spente le luci, i costumi sono stati lavati e piegati nei magazzini.

Roma e settembre sono un bel connubio. Struggente.

Riprendo la mia piccola scatoletta incandescente e parto da uno dei punti più alti della città. La pendenza permette di correr giù a folle fino al Ministero della Pubblica Istruzione e costeggiare gli edifici di inizio Novecento a cui sono aggrappati cirri di florida e profumata vegetazione; gli stessi che a maggio dischiudono le porte di un paradiso olfattivo e inebriano l’aria con il profumo di gelsomini e glicini. Il bianco e il lilla nascondono gli ocra e i rossi dei palazzi, confondono i perimetri architettonici e si stagliano sul fondale azzurro del cielo, limpido ancora per poche ore e pochi giorni.

Il potere magico della discesa termina: da questo momento in poi si deve inserire la marcia per incolonnarsi al semaforo, puntualmente rosso. A settembre e solo a settembre, quando le nevrosi al volante sono ancora gestibili, rinuncio alla casbah del mercato e tiro dritto fino a Ponte Garibaldi senza percorrerlo. Per tornare a casa devo girare nell’unica direzione possibile e avvicinarmi al parapetto che affaccia sul fiume. Se tiro dritto fino a Ponte Garibaldi non mi godo il biancore del Palazzo degli Esami restaurato dopo anni di acrobazie di ponteggi e promesse mancate. Ed è un vero peccato perché è bello, molto.

Non so nulla o quasi di questo Palazzo degli Esami: una data, 1936, e un nome, Edmondo del Bufalo. Dopo questo confine temporale, le solite giravolte italiane: chiusure, riaperture, appalti truccati, morti e risorti, scaduti e rinnovati dalla molecola imperitura della mazzetta, cambi di destinazione d’uso. Il classico esempio del matrimonio all’italiana tra arte e politica.

palazzo-degli-esami
Palazzo degli Esami per concorsi di Stato

La mia foto sbilenca risale a settembre 2015. Era una domenica come oggi. L’aria era finalmente frizzante e per procedere utilizzavamo le gambe e non le ruote. Tra noi non c’erano parole ma silenzi carichi di quelle parole celate anche a noi stessi. Tra di noi non soluzioni, ma una pizza untuosissima e buonissima comprata in un famoso forno di Viale Trastevere. Camminavamo lenti eppur spediti verso il declivio sentimentale.

Fino a qualche anno fa tutt’intorno al Palazzo c’era un girotondo di tavole; erano le guardie mute e immobili del lento e superficiale maquillage, i simboli dell’inerzia dei lavori pubblici, dei romani e dell’atteggiamento dei romani nei confronti dei lavori pubblici. Tutte loro, poi, sono capitolate una dopo l’altra sotto le mani, i colori, gli stencil e le bombolette spray dei vari street artist gravitanti, immagino, intorno a quel nucleo fricchettone del Villaggio Globale. Su una di esse ammiccava una conturbante figura muliebre, omaggio a Gustav Klimt o Koloman Moser e ricordo di una Vienna di inizio Novecento. Ero innamorata di quella donna. Come sono innamorata delle donne di Klimt, di Moser e di tutti quegli austrici, tedeschi e slavi che nel primo sospiro del Ventesimo secolo arricchivano la cartellonistica di nuove icone e composizioni, alimentando così fantasie e voluttà. Non sapevo chi fosse l’autore di quella rivisitazione contemporanea, ma certo ne ammiravo la formazione e le suggestioni. Ho scoperto solo recentemente il suo nome, dopo aver notato la replica caleidoscopica del suo stile e della sua firma nella mia e in tante altre città. Diamond: è questo il suo nome d’arte, come il diamante è il suo segno di riconoscimento. A cavallo tra intellettualismo e kitsch, ça va sans dire, io personalmente l’adoro.

Tolte le barricate ed eliminato il lavoro di Diamond, rimane la solita mia foto sbilenca e il sapore dolciastro di quella domenica, dolce ma non gradevole, che si incolla come glassa appiccicaticcia prima sul cuore che sul palato. Rimane il masochismo che tignoso continua a manifestarsi in silenzio, con sciolta inconsapevolezza e che con erronea ingenuità mi illudevo si presentasse solo di domenica. Ma il masochismo è orgogliosamente più libero di qualsiasi previsione e si manifesta, maledetto, quando e quanto più gli aggrada.

Lontana eppur vicina

Penso a lei, alle sue mani nodose e al profumo della sua pelle. Ora mia nonna, la mia amata nonna con la quale condivido un pezzo di nome e di vita, è insistentemente nella mia testa.

L’ho persa quasi venti anni fa, ma noi c’eravamo perse già da tempo, lei nelle grinze della sua malattia, io nei cunicoli della mia adolescenza, per la quale producevo, e presto esaurivo, cumuli d’inutili affanni ed energie. Lei m’ha cresciuta. Lei con altre due donne dello stesso rame famigliare hanno allevato me, cucciolo malfermo di genitori impreparati. E hanno instillato se stesse nel mio corpo e nella mia memoria.

Quando mi accoccolo fra i ricordi che solo lei occupa mi sembra di poter ascoltare ancora la sua voce e percepire l’effetto tattile dei suoi capelli tra le dita. Interpretava per me delle nenie sempre diverse e per un lui distratto le canzoni di Mina, struggendosi di sincero trasporto. Allora non ne comprendevo il motivo, ma è bastato accumulare gli anni sul calendario e sganciarmi dal cieco affetto per capire. E struggermi con e come lei.
Era il mio rifugio, e forse io il suo. Sull’unico seno rimasto dopo il “brutto male” la mia testa trovava la pace, in una concessione intima che solo a me riservava, perché nipote unica e perché per tale condizione potevo incollarla ancora di più al suo venerato figlio.

Le tre età della donna - Gustav Klimt
Gustav Klimt – Le tre età, 1905

Mia nonna aveva le stesse mani ossute della vecchia de Le Tre età di Klimt, in entrambe lunghe, percorse da vene tortuose e livide sotto una pelle sottile e diafana. Vorrei fosse solo lei ad avere questo specchio artistico, ma so che tutti i vecchi e tutte le vecchie arrivano a sviluppare le stesse periferie corporee. Anch’io le ho, già adesso. Io che nell’infanzia avevo le estremità simili a mio nonno – piccole e paffute dicevano, corte e tozze dicevo – ora manifestano una certa fragilità, somministrata a minuscole dosi dal tempo e da uno sport che in quest’ultimo lustro mi ha prosciugato il fisico e mi ha bonificato l’anima.

La prima volta che mi ritrovai davanti questo quadro fu quasi vent’anni fa e già avevo contratto il morbo della Wiener Werkstätte. Spesso lo vado a vedere, il dipinto: è conservato nel mio museo preferito e, purtroppo o per fortuna, ogni particolare mi riporta a lei. Lo osservo con un’attenzione quasi matematica che però non procura il distacco della scienza ma il trasporto della patologica ossessione. Una volta, nel descrivere l’opera a stanchi e irrequieti pulcini delle scuole elementari, mi sono dovuto produrre in mentali voli pindarici per distogliere il pensiero dal carico emotivo e ricacciare nei depositi oculari le lacrime.

La vecchia di Klimt volta la testa per celarsi al mondo; anche mia nonna a un certo punto ha preferito nascondersi. O forse è stata la malattia che la trascinava in universi sconosciuti, costellati di storie lontane e nomi ignoti, e la teneva esiliata e bandita dalla comune comprensione.
Era schiva, bellissima da giovane e mai prona al suo fascino: non si concedeva incursioni nel mondo della frivolezza, a differenza della sorella, ora splendida – e frivola – novantunenne.

Vorrei che fosse qui, ancora un po’ con me, per recuperare il tempo scivolato via, per carezzarle le guance e guardare quell’unghia difettosa, eredità di un trauma antico che come una molla mi attraeva e respingeva.
Ma lei non c’è; ci sono io, influenzata in un pomeriggio di quasi primavera che dovrebbe servirmi per scrivere di altre donne e che invece dedico a lei. Le riservo una porzione della giornata e tutto il mio amore, nella speranza di lasciarlo andar via perché per troppo tempo rinchiuso tra le pareti delle mie memorie, che seppur lievi riescono a essere ferocemente crudeli.

Fantasie e volontà di leggerezza

Io e lei intrecciate in un abbraccio sotto bagliori caldi e carezzevoli.
È il primo di febbraio, ma sembra una timida giornata di aprile, il mese del mio compleanno, degli sbadigli e della terra che si lacera per far posto ai novelli germogli. Ci stringiamo forte godendoci questo lungo momento di tenerezza e profonda amicizia. Io chiudo gli occhi e sento che diventano caldi. Li apro e li strizzo, per la luce e per le gocce salate.

Dietro di lei e davanti a me si stagliano i due corpi, gemelli per forma e sostanza, che introducono in uno dei luoghi più belli della città. Luigi Canina nel 1829, chiamato dal principe Camillo Borghese – nobile nel mare magnum dei nobili romani- li piazza quali monumentali ingressi di Villa Borghese. Un confine che se valicato riesce a esercitare una malia ben oltre la visita, trasformando i sensi in surreali ostaggi di una surreale Sindrome di Stoccolma naturalistica.

Propilei Villa Borghese
Ingresso di Villa Borghese da Piazzale Flaminio – litografia di E. Landesio, 1842

Tecnicamente queste due entrate sono tempietti di gusto neoclassico, un po’ eclettici, un po’ ridondanti, un po’ tanto celebrativi (su entrambi i frontoni il sor Camillo di prima è ricordato quale architetto concettuale di tutto l’ambaradan di ampliamento e sistemazione del parco); oggi, come forse allora, sono due osti di marmo che offrono rifugio a turisti sfiancati e umanità alla deriva. Poco più avanti s’impone la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, per gli amici (e per i pigri) anche detta Gnam, custode di un’arte che mi parla e tocca nonostante le infinite visite che amo riservarle. Nella mia personale classifica di posti del cuore, il Museo sale e scende i gradini del podio senza mai abbandonarlo.

Io l’ho capito, che la Gnam mi si sarebbe infilata sotto la pelle, un sabato qualsiasi di un imprevedibile marzo, quando nuvole gonfie di panna si trasformavano in cumuli di pioggia e il sole giocava a nascondino tra di esse. L’ho capito allo scoccare dell’apertura, quando l’ultimo sorso di caffè impastava la bocca dei guardiani e la biglietteria accoglieva incredula i primi e mattinieri visitatori. L’ho capito sedendomi nella diciottesima sala, quella della Belle Époque, lasciandomi alle spalle il grande trittico di Balla, ancora splendidamente divisionista, e quello di De Nittis, emigrato d’élite in una Parigi che vuole e sa divertirsi e che lui ferma durante il turbinio, mondano più che sportivo, di una corsa di cavalli, in cui manco un impettito barboncino bianco sembra accorgersi della nostra presenza. Io l’ho capito facendo finta di ignorare queste imponenti fatiche bidimensionali per seguire sul muro il mutare della luce naturale, in un intermezzo visivo che placa le ansie di Van Gogh e le inquietudini dei Simbolisti a pochi ambienti di distanza. Io l’ho capito come si capisce una verità molto banale: dono e rivelazione della mia città, mi accoglie e mi scuote da strizzate e striminzite routine quotidiane.

Da qualche parte, fuori la Gnam e dentro Villa Borghese, si incrocia la Valle dei Cuccioli, ampio scrigno di tesori segreti dove la cenere di un fuoco a me sacro continua a languire.
Forse è proprio pensando a quella pira che immalinconisco, e nello stringere più forte la mia amica mi commuovo. Lei se ne accorge nonostante i doppi occhiali da sole – i miei e i suoi – e si lega a me in un contatto sempre più intimo e amorevole. La prassi da me escogitata in questi casi è il ribaltamento della situazione con frasi ciniche e sarcasticamente sprezzanti, ma lei estrae ogni goccia di dolcezza che si nasconde nel mio piccolo corpo e mi ritrovo così smarrita nella tristezza, per coloro che negli anni abbiamo a nostra volta smarrito.

Nella corta circonferenza di un’ora seguirà un pranzo al chioschetto dell’Auditorium, una piccola ma carica rivelazione, e le nostre voci, fiumi in piena costretti in argini chiamati minuti.
Il pomeriggio ci vuole distanti: il mio trascorso sui banchi di scuola, il suo sul sedile di un autobus che la riporta a casa e lontano da me. Ma la rivedrò presto perché mi ha promesso che festeggeremo insieme un passaggio importante della mia età adulta che avverrà nell’istante di pochi respiri.
Vagheggiando quel momento, mi perdo nelle fantasie, sinonimo in me di speranza e volontà, e gioco con l’immaginazione, proiettandomi in un futuro che mi (pre)vede infilata in tessuti da altri cuciti ma da me progettati, mentre io e lei infiliamo in un tempo luminoso e pulito le nostre nuove, leggere e ariose parole.

 

Cronaca datata di una mattina di novembre

Ore 7:48. Piazza di Spagna è deserta. Deserta la scalinata trincerata dietro le transenne dei restauri, deserti i marciapiedi che a breve si popoleranno di turisti e avventori. Deserti, ovviamente, i negozi, dormienti dietro le saracinesche serrate.

Lascio la mia vittima e carnefice a scuola e nel freddo di questa giornata di novembre decido che saranno le gambe a condurmi verso altri luoghi. Gentilmente diniego il passaggio di autobus e metro e mi intrufolo in via del Babuino in una camminata che assomiglia più a un giro di ricognizione nei luoghi del delitto.

Ritorno dopo anni, infatti, in quel binario sghembo racchiuso tra via del Corso e via Margutta che per mesi mi ha visto andare a lavoro col più eccitato dei sorrisi ed entusiasmo.

Un cartello sul portale di Santa Maria del Popolo chiede gentilmente di non entrare durante l’orario della messa. Il mio ateismo mi ha forse trasformato in una persona irrispettosa perché senza pesare troppo gli scrupoli spingo il pesante battente e varco la soglia. Un’orgia di architettura e decorazione sconvolge i sensi che solo appoggiando gli occhi sulle volte delle navate, lisce e senza orpelli, riacquistano un rinnovato equilibrio.

Volte lisce ma ferite da squarci che parlano di tempo e umidità, i due leit motiv di questa città. Storia e acqua qui scorrono ovunque, insinuandosi sotto i vicoli e nei pori di chi la abita.

Fuori il sole non riesce a vincere le nuvole. Il cielo sembra un puzzle che una folata di vento ha spazzato via.

Zigzagando tra Piazza del Popolo e Lungotevere in Augusta mi affaccio alla balaustra marmorea di ponte Regina Margherita. I gabbiani scivolano sul fiume; su una delle sue rive un addetto al giardinaggio recide pezzi di natura selvaggia cresciuta lungo gli argini. Utilizza grosse cesoie che comunque non gli risparmiano fatica. Taglia, sì, continua a tagliare, tanto lei ritornerà nonostante tutto e tutti in un sempiterno sopruso che la vorrebbe soggiogare e che la vede, alla fine della battaglia, trionfante.

Sento freddo. Ricomincio a camminare e incrocio un monumento, piccolo e solitario, dedicato a tutti i caduti delle forze armate. Lo firma un certo Giorgio Bisanti mentre io, ammettendo di non aver mai sentito prima questo nome, firmo la mia dichiarazione d’ignoranza.

Mi spingo dentro il quartiere Prati dove gongolo in mezzo a tutti quegli edifici massicci e autoritari. Gli uffici iniziano ora ad aprire le porte, attraversate a spicciolate dai primi mattinieri colletti bianchi.

A Lepanto mi infilo nei corridoi della metro dove tra l’arancione, il bianco e il nero – colori del trasporto sotterraneo –  si mischiano, e non si camuffano, le uniformi vegetate dei militari, segnale e memento di una sera sconvolta e allarmismi sconvolgenti. Le loro pistole, i loro mitra mi allarmano; sono soldati ma sempre essere umani, vulnerabili e fallibili.

Mi dileguo e attendo sulla banchina la staffetta che si sostituirà ai miei piedi, pensando e sperando che la vita sia quella appena raccontata. Dove alle divise si contrappone lo scorrere lento o veloce dei giorni. Dove ognuno possa ricavare dalla quotidianità un paragrafo di estetica stimolante e vivificante, degno di essere appuntato e custodito.

Ettore Roesler franz - Via del Campanile in Borgo, 1883 circa
Ettore Roesler Franz – Via del Campanile in Borgo, 1883 circa

A volte mi sento vecchia. Non mi sento anziana, declinazione politicamente corretta del tempo che incide pelle e anima, mi sento proprio vecchia. Perché mi sorprendo ad attraversare e spiare Roma con gli stessi occhi di Ettore Roesler Franz interpretando e interiorizzando tutti i suoi stati d’animo. Come intermittenti fuochi fatui, appaiono e scompaiono nella testa le sue opere, portatrici (in)sane di malinconia. Gli acquerelli, soprattutto, trasudano e sgocciolano tristezza a litri. E io mi sento vecchia perché rimpiango quei tempi andati (sconosciuti e personalmente mai realmente esperiti) bloccati sulla carta.

Lui, cognome da straniero e romano da diverse generazioni, traccia profili e umanità di una città sul limbo del cambiamento, confine intoccabile ma da ogni parte violata. Sulle sue carte la nostalgia di un’epoca fuggita via è tangibile, sotto le palpebre e il palato, perché, si sa, la nostalgia è dolciastra. Rovine irreversibili e genti erranti di un territorio trasognato si depositano sul foglio e nella mente.

Allungo anch’io uno sguardo inquieto al mio tempo e al mio spazio e nel percorrere la mia Roma cerco un appiglio e un’ancora di salvataggio; trovo però solo una “giovane vecchia” alla ricerca di se stessa e della sua estensione, un mielato sapore sulla lingua e i candidi marmi a far da luce e guida sulla strada.

In pieno inverno il ricordo di un autunno alle porte

Attilio Pratella - Pescatori a Napoli
Attilio Pratella – Pescatori a Napoli

Mani nodose tamburellano nervosamente sulle ginocchia di un corpo col quale condividono l’appartenenza. Gambe e braccia abbronzate escono da un abbigliamento ancora estivo. Scura, quasi abbrustolita, la pelle ha imparato le leggi del mare e il suo linguaggio segreto. I piedi indossano espadrillas consunte dalle quali fanno capolino calzini spaiati, uno arancione e uno celeste.

Il mio vicino di sedile in metropolitana è un tipo che convenzionalmente potrebbe esser definito strano o sui generis.

Testa canuta e rughe – profonde parentesi intorno alle labbra – muscoli tesi e definiti: tutto in lui parla di salsedine, venti violenti e terre bagnate dal sale liquido. Io invece sembro essere pronta per l’inverno. Ma no, mi devo correggere, non lo sono e mai lo sarò: freddolosa cronica, i tentativi di raggiungere validi compromessi con le basse temperature si rivelano ogni volta inutili e inefficaci.

Inizio a scrivere poco prima di vederlo scendere a Furio Camillo; le rotaie si allungano lontano dal suo tempo e dal suo spazio, e io con loro, mentre la mente inchioda su un’immagine che è souvenir fragile e friabile dell’estate che ho appena trascorso e che lo sconosciuto sembra trascinarsi via, così come i pescatori strascicano via le loro reti.

Il mio coinquilino di vagone non condivide nulla con i quadri di Pratella, eppure guardarlo staccarsi dal convoglio con il suo vestiario così ostinatamente leggero mi serra lo stomaco in un processo che ben conosco e che si innesca ogni volta che, davanti alla rassegna di questi e altri dipinti della stessa razza, mi fermo ad indagare le stagioni rappresentate.

Un po’ me ne vergogno e forse non dovrei pensarlo, dirlo e soprattutto scriverlo, ma a me la pittura meridionale del secondo Ottocento, specialmente quella napoletana – così accorata, carica di quel pathos che nel passaggio dal sostantivo all’aggettivo si ingrossa di sfumature aneddotiche e didascaliche – piace. Nel mio intimo più profondo ne rimango attratta e ciò svela dicotomie e incongruenze del mio immaginario visivo.

Gli intenti veristi appaiono smorzati dalla calda luce di un Mezzogiorno avulso, sembrerebbe, dagli affanni pre e post unitari e cristallizzato in un qui e ora mitizzato e gonfio di nostalgia.

È in questa luce, capace di accarezzare paesaggi e uomini, che si perde lo sguardo di Attilio Pratella, pittore di origini settentrionali che a Napoli, nonostante difficoltà e smunte entrate economiche, decide di vivere restituendo alla città i suoi scorci e le sue vedute in uno scambio intimo tra artista e l’inconsapevole musa.

Una piccola àncora esce da questi quadri e s’incaglia nel bagaglio mentale, eppure così pesante, dei giorni elastici e sospesi nella calura agostana. La memoria si alimenta e si perde nella malinconia delle ore festive, refugium peccatorum di anime dannate e votate alla dittatura frenetica, bulimica e comunque noiosa della routine quotidiana.

Domeniche gratuite, fatiche (piacevoli) assicurate

Mario-Sironi-Abbonamento-annuo-L-75-Popolo-dItalia
Mario Sironi – Abbonamento annuo L 75 – Popolo d’Italia

La prima domenica del mese, si sa, equivale a dire musei gratuiti.
Il tour de force è quindi inevitabile. Per immergermi nella cultura e considerato che ho un po’ di tempo in esubero prima di iniziare il giro vero e proprio, raccatto gli articoli di giornali che io e mio padre ci conserviamo e leggo quello di Francesco Erbani, apparso giovedì 31 dicembre su La Repubblica. Doveva essere il primo di una serie che prevedevo più sostanziosa e invece è stato l’unico, perché alla fine della lettura più che immersa nella cultura mi sentivo annegare nella bile (il testo-denuncia riguarda i lavori di viabilità a ridosso de La Rotonda, villa palladiana in provincia di Vicenza, e su cui credo tornerò più lungamente).

Butto giù un po’ di pensieri e l’orologio mi segnala che dall’anticipo al ritardo sulla tabella di marcia è stato un attimo. Mi svesto e vesto, salto in bici e mi godo una pedalata rilassata attraverso la città che ancora dorme e che senza rendersene conto è sfiorata da una luce calda e magica. La luce accarezza Roma e Roma accarezza me in uno scambio che mi fa dimenticare le sue molestie e arroganze quotidiane.
Supero piazze e vie fino ad arrivare a Porta Pia dove mi attende una passeggiata guidata alla scoperta della storia municipale post breccia. Raggiungo il punto d’incontro accaldata e affaticata: il falso piano tra Castro Pretorio e l’ambasciata inglese mi prova, oltre al fatto che indosso abbigliamento da trekking come se l’apocalisse metereologica mi aspettasse al varco. Solo a me, chiaramente.

Lego Frankenstein (perché assemblaggio scoordinato e sconsiderato di altri sgangherati velocipedi), procedo alla registrazione e aspetto la mia omonima.

Iniziamo. Non posso non rimanere rapita dagli eventi e dai racconti in un flusso di immagini e immaginazione che la storica, nonché nostra guida, aizza nella mia testa. È proprio brava, bisogna riconoscerglielo: teatrale nell’esposizione narra di cronologie lontane eppure emozionalmente vicine.

Dopo due ore insieme al Viminale ci salutiamo tra baci, abbracci e complimenti; a piedi, sempre io e la mia omonima, ci dirigiamo alle Terme di Diocleziano. Lì la mostra di Moore è agli sgoccioli e non so se per questo o perché è gratuita, ci ritroviamo assiepate insieme a tanti altri visitatori. Tra cui mio padre. Sì, mio padre, il quale non sapendo della mia presenza in quel luogo mi manda un messaggio con il seguente testo: “Le sculture di Henry Moore insieme alle tombe, eccole! Ciao!”
Non posso crederci. Lo cerco, lo raggiungo, lo bacio e me ne vado.

Torno a contemplare non le sculture, ma i disegni di un artista che fino a qualche anno fa non volevo ascoltare. Poi l’ho visto alla Cà Pesaro di Venezia e da quel momento lo strazio ogni volta che lo incontro. Uno strazio d’amore che lui stesso alimenta quando scrive e io leggo: “Ho scoperto, quando disegno, che posso trasformare ogni piccolo scarabocchio, sgorbio o sbaffo in una madre col figlio.” Le opere su carta sono intense, mentali, intime. Avverto chiaramente che potrei emozionarmi e gioco la carta del cinismo con l’omonima che quando vuole sa essere più cinica di me.

Affamate e abbastanza provate ci separiamo poco dopo l’uscita, non senza uno scambio di sguardi e parole. Poi lei verso gli autobus io a recuperare Franke, abbandonata a guardare l’inizio di Via Nomentana con il suo viale alberato e le carreggiate semi deserte.
La slego e, senza muovere i pedali, lascio che la discesa mi conduca diretta e senza fatica a Villa Torlonia, dove in uno dei complessi espositivi in essa contenuti, si srotola l’impegno di Mario Sironi quale illustratore per la rivista mussoliniana Il popolo d’Italia.

Io amo Sironi. Anche in questi lavori così fastidiosamente faziosi. Del resto non poteva essere altrimenti: fascista della prima ora, affida tutte le fiducie di uomo, artista e civis alla nuova politica.
Fascista sì, ma non intriso del fascismo più becero e comunemente inteso. Sironi nelle parole di Mussolini intravede un nuovo e condivisibile risorgimento italiano, e storico e artistico, il cui maggiore beneficiario sarebbe stato il popolo verso il quale indirizza la sua produzione grafica. Nelle illustrazioni trasla lo stesso linguaggio dei dipinti e delle opere murarie, gonfie di volumi, essenziali, nobili e modernamente classiche o classicheggianti.

Tante le carte appese al muro o sistemate negli sparuti tavoli delle sale. Troppe, per me già satura di immagini. Mi imbacucco per l’ennesima volta e ripercorro la Nomentana al contrario, in salita quindi. All’altezza di Porta Pia anelo un bikini. Ho invece 5 strati di tessuto sintetico. Sintetico, tecnico e caldo.

A casa la doccia, il ristoro e l’attesa della sorella amata che mi accoglie con un mini cannolo siciliano. La giornata potrebbe finire così, piena di regali e momenti speciali. Potrebbe. Ma questa prima domenica dell’anno mi consegna l’ultimo ed ennesimo dono: la nipote in braccio e la melodia della sua risata nelle orecchie.

 

Mai dire no all’amica perennemente aggiornata

“Guarda, è aperta! Entriamo, ho letto che hanno appena finito i restauri”.

Le rispondo di sì, consapevolmente distratta dal pensiero dell’appuntamento disatteso di qualche ora prima. Le rispondo di sì, senza capire esattamente cosa mi stesse chiedendo e dove le mie gambe mi stessero portando.

Una volta dentro, un dardo dorato risplende davanti ai volti rapiti di un capannello di turisti. I giapponesi hanno macchine fotografiche pesanti e scenografiche, come da copione. Li raggiungo e vedo anch’io ciò che ammirano loro: la carne dell’angelo è liscia e candida. La luce vi si riflette carezzandola.

Anche Santa Teresa ha la levigatezza della pelle di un bambino. Pelle e abito levigati corrispondono a un viso che nella Transverberazione adotta il linguaggio della carne e dei sensi.

Il Cavalier Bernino ha qui espresso l’audacia che solo lui poteva permettersi.

Ai lati i Cornaro, i committenti della cappella e astanti incuriositi dell’evento mistico che mistico non è, perché nell’espressione della santa e nella lieve apertura delle sue labbra non c’è niente di più prosaico. Artisticamente e subliminalmente prosaico ma pur sempre tale.

Riflessioni senza capo né coda davanti alle due armature della cantoria attardano l’uscita. Non sazie le documentiamo con scatti e commenti improbabili.

Finalmente io e la mia omonima andiamo via lasciandoci alle spalle lo sfarzo turbinoso e turbinante di Santa Maria della Vittoria.

Io e lei ci spartiamo lo stesso nome e un certo sguardo sulle cose.

La bellezza della condivisione di due menti vicine amplifica lo scambio che si completa, però, solo quando i sorrisi diventano tre e gli occhi sei, solo quando le voci si sovrappongono e alle nostre si unisce la terza – o prima o seconda – componente del trio di questo gioco di racconti e amicizie.

Gian Lorenzo Bernini - Estasi di Santa Teresa d'Avila 1647-1652
Gian Lorenzo Bernini – Transverberazione di Santa Teresa, 1647-1652

Attivare e fermare il movimento. Sempre.

Da sola, a casa.

Mi trattengo al tavolo della cucina dopo aver mangiato un pranzo fortunatamente diverso da quello dei giorni precedenti. Fuori c’è il sole, il cielo è terso e in lontananza gli uccellini cinguettano tra loro in una delicata discussione che mi esclude e diverte.

Da anni il 26 dicembre non compare nel mio personale calendario; questo mi ha permesso di andare a correre ben oltre gli orari a cui sono abituata, fare una lunga doccia e attardarmi a sfogliare i giornali di moda in previsione dell’apertura dello stomaco, satollo dai pasti precedenti.

Il silenzio in cui è immerso il quartiere genera in me stupore: se non indossassi un maglione sopra diversi strati più o meno pesanti potrei immaginare che è un pomeriggio di una domenica d’agosto.

Credo sia il primo Santo Stefano trascorso così, in solitaria e in solitudine. Ma va bene: la contemplazione delle piccole cose aiuta la comprensione delle più grandi questioni.

In attesa di tempi migliori, come direbbe mio padre – in un futuro che sembra non esser mai all’altezza delle sue aspettative – lavo i piatti e inforco la bici.

Perché vivere non è attendere, vivere è muoversi. E io farei bene a ripetermelo più spesso.

Marcel Duchamp - Ruota di bicicletta, 1913
Marcel Duchamp – Ruota di bicicletta, 1913

Chiudo così la mia giornata, in sella.

Nel 1913 Marcel Duchamp butta sella, telaio e pedali salvando solo ruota e forcella. Le mette su uno sgabello e realizza il suo primo ready-made.

Sarà incipit e anticipazione di quel folle e profetico “gioco” chiamato Dadaismo.

 

Un cane per amico

Lei dorme mentre io mi guardo e studio gallery infinite di Amstaff e Bull Terrier.

Non c’è nulla da fare, per quanto sia un’amante degli animali in generale e dei cani in particolare, i molossi nello specifico sono la mia passione. Mi piacciono i loro muscoli, così evidenti e tesi sempre e comunque. Ammiro il loro portamento e i loro denti, vere e proprie armi se affidate a padroni sconsiderati e assenti. Mi conquista il loro affetto, incondizionato e puro, la loro dolcezza e la fedeltà.

Vorrei tanto in questo momento che un cucciolo o un adulto a quattro zampe si regalasse e affidasse a me. Lo desidererei incondizionatamente per me e ancor più smodatamente per lei, lieve batuffolo assopito sulle mie gambe e sul mio busto.

Da piccola ho richiesto incessantemente un animale, ma i miei, nonostante l’esasperazione cui li portavo, generavano sempre la stessa risposta, automatica e diplomatica: non c’erano sì e no, c’era solo ‘adesso vediamo’. Dopo l’ennesimo ‘adesso vediamo’ capii che non avremmo mai visto nulla.

Ho dovuto presto metter via i miei sogni di gloria con un cane e adattarmi a quello che passava il convento.

Il convento passava pesci rossi. A volte erano anche grigi (bruttissimi e anonimi, poverini) o bianchi. Amabili creature della natura, certo, ma non quello che io bramavo.

Mia sorella, invece, ha mantenuto sulla questione, almeno fino un determinato momento, un atteggiamento defilato. E mentre lei si disinteressava, io accantonavo, per poi abbandonarla definitivamente, l’idea di un cane a casa.

Le antiche fiamme si riaccesero quando nelle nostre vite arrivò un bull terrier. Fu amore. E io ricominciai ad esser ostaggio, ancora e ancor più risolutamente, di quella mai sopita volontà.

Ho superato i natali necessari per sentirmi adulta; ora ho la maturità e l’altruismo per possedere un cane. Lo so, lo sento.

In tutti questi miei vagheggiamenti ce n’è uno solo per lei, prezioso regalo atterrato da poco nella mia (stramba) famiglia.

Sarebbe bello e pedagogicamente sano se il suo itinerario emotivo attraversasse i sentieri del rispetto e della cura, anche grazie a un amico speciale, senza il dono della parola ma con quello del sempiterno attaccamento.

Ed è per questo che stasera io mi arrampico su queste dolci colline di progetti. È il suo caldo corpo sul mio che mi porta a credere che questo amico speciale sia necessario, perché la sollecitudine di un alleato peloso è il lumino acceso nella stanza dei bambini, guida e insieme sostegno.

Ricordo esattamente quando lessi i due libri che contribuirono a livellare il mio desiderio su uno strato di convinzioni già esistenti: nel 2012 Cane e padrone di Joseph Conrad, a febbraio 2015 Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Nel primo testo il legame tra bipede e quadrupede è lampante già dal titolo. Il loro connubio e la loro sintonia non può che ricordarmi la corrispondenza affettiva tra Bendicó e il Principe di Salina, coprotagonisti (sì, per me sono entrambi attori principali) del secondo. Ho divorato Il Gattopardo in poche ore e a distanza di mesi lo sfoglio solo per il gusto di farlo, perché scritto con una ricchezza, pienezza e consapevolezza (la fiera della doppia z, lo so) linguistica e visiva che straripa e riempie il mio personale baule di parole e immagini.

E perché vergato su una tela il cui sfondo è quell’impasto di speranze e delusioni che è stato il Risorgimento italiano. Un segmento del passato che ho imparato ad amare solo negli ultimi anni grazie ad artisti che si sono rivelati portavoce di ideali, cronologie geografiche e pubbliche celebrazioni.

Tra questi, Vincenzo Vela, scultore ticinese che nel 1848 combatté le Cinque giornate di Milano. Lui come altri politicamente coinvolti, prolungava il suo impegno civile e culturale nelle sue opere. Fu lo stesso Vela a servirsi di Spartaco, lo schiavo ribelle, per rappresentare l’insurrezione del popolo e la risoluta volontà di liberarsi dell’oppressore, in un parallelo che accomuna un evento del I secolo avanti Cristo e i moti rivoluzionari che circondarono quell’anno cruciale dell’Ottocento.

E di oppressori, nel 1848, in quella che da lì a poco sarebbe diventata l’Italia ce n’erano veramente troppi.

Ma Vincenzo Vela è anche l’autore di una descrizione intima e delicata che ha catturato la mia fantasia mentre immaginavo G. giocare con un cane. Non riuscivo a smettere di ricordare il ritratto della contessina Leopoldina d’Adda, figlia di quel Carlo d’Adda che durante la visita a Milano dell’imperatore Francesco Giuseppe e la moglie Sissi credette bene di gettare un busto di marmo contro il corteo regale. I black bloc non si sono inventati niente di nuovo.

Vincenzo Vela - Ritratto di Leopoldina d'Adda
Vincenzo Vela – Ritratto di Leopolda d’Adda, 1852-1854

Io, però, quando osservo quest’opera non vedo la figlia di agguerriti militanti. Mi soffermo, in realtà, sulla fattura della creazione e le soluzioni che l’artista adotta per cristallizzare un’immagine densa di quotidianità e naturalezza: la sedia troppo grande, l’esile ginocchio che spunta dalla gonna del vestito, il pizzo di Sangallo e la lunga fila di bottoni che chiude e orna un abito leggero, i piedi ciondolanti, i calzini che ricadono molli e la massa nervosa del cocker spaniel, tutta percorsa da un fremito che troverà pace solo a premio conquistato.

Nei dettagli, pezzi di puzzle che lo scultore incastra per consegnarci un piccolo marmo gonfio di umanità, io riconosco una cinquenne che tiranneggia divertita e amorevole il suo compagno di giochi con una spensieratezza e levità che solo i bambini sanno maneggiare. E che io vorrei tanto promettere alla mia minuscola nipote.