Un cane per amico

Lei dorme mentre io mi guardo e studio gallery infinite di Amstaff e Bull Terrier.

Non c’è nulla da fare, per quanto sia un’amante degli animali in generale e dei cani in particolare, i molossi nello specifico sono la mia passione. Mi piacciono i loro muscoli, così evidenti e tesi sempre e comunque. Ammiro il loro portamento e i loro denti, vere e proprie armi se affidate a padroni sconsiderati e assenti. Mi conquista il loro affetto, incondizionato e puro, la loro dolcezza e la fedeltà.

Vorrei tanto in questo momento che un cucciolo o un adulto a quattro zampe si regalasse e affidasse a me. Lo desidererei incondizionatamente per me e ancor più smodatamente per lei, lieve batuffolo assopito sulle mie gambe e sul mio busto.

Da piccola ho richiesto incessantemente un animale, ma i miei, nonostante l’esasperazione cui li portavo, generavano sempre la stessa risposta, automatica e diplomatica: non c’erano sì e no, c’era solo ‘adesso vediamo’. Dopo l’ennesimo ‘adesso vediamo’ capii che non avremmo mai visto nulla.

Ho dovuto presto metter via i miei sogni di gloria con un cane e adattarmi a quello che passava il convento.

Il convento passava pesci rossi. A volte erano anche grigi (bruttissimi e anonimi, poverini) o bianchi. Amabili creature della natura, certo, ma non quello che io bramavo.

Mia sorella, invece, ha mantenuto sulla questione, almeno fino un determinato momento, un atteggiamento defilato. E mentre lei si disinteressava, io accantonavo, per poi abbandonarla definitivamente, l’idea di un cane a casa.

Le antiche fiamme si riaccesero quando nelle nostre vite arrivò un bull terrier. Fu amore. E io ricominciai ad esser ostaggio, ancora e ancor più risolutamente, di quella mai sopita volontà.

Ho superato i natali necessari per sentirmi adulta; ora ho la maturità e l’altruismo per possedere un cane. Lo so, lo sento.

In tutti questi miei vagheggiamenti ce n’è uno solo per lei, prezioso regalo atterrato da poco nella mia (stramba) famiglia.

Sarebbe bello e pedagogicamente sano se il suo itinerario emotivo attraversasse i sentieri del rispetto e della cura, anche grazie a un amico speciale, senza il dono della parola ma con quello del sempiterno attaccamento.

Ed è per questo che stasera io mi arrampico su queste dolci colline di progetti. È il suo caldo corpo sul mio che mi porta a credere che questo amico speciale sia necessario, perché la sollecitudine di un alleato peloso è il lumino acceso nella stanza dei bambini, guida e insieme sostegno.

Ricordo esattamente quando lessi i due libri che contribuirono a livellare il mio desiderio su uno strato di convinzioni già esistenti: nel 2012 Cane e padrone di Joseph Conrad, a febbraio 2015 Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Nel primo testo il legame tra bipede e quadrupede è lampante già dal titolo. Il loro connubio e la loro sintonia non può che ricordarmi la corrispondenza affettiva tra Bendicó e il Principe di Salina, coprotagonisti (sì, per me sono entrambi attori principali) del secondo. Ho divorato Il Gattopardo in poche ore e a distanza di mesi lo sfoglio solo per il gusto di farlo, perché scritto con una ricchezza, pienezza e consapevolezza (la fiera della doppia z, lo so) linguistica e visiva che straripa e riempie il mio personale baule di parole e immagini.

E perché vergato su una tela il cui sfondo è quell’impasto di speranze e delusioni che è stato il Risorgimento italiano. Un segmento del passato che ho imparato ad amare solo negli ultimi anni grazie ad artisti che si sono rivelati portavoce di ideali, cronologie geografiche e pubbliche celebrazioni.

Tra questi, Vincenzo Vela, scultore ticinese che nel 1848 combatté le Cinque giornate di Milano. Lui come altri politicamente coinvolti, prolungava il suo impegno civile e culturale nelle sue opere. Fu lo stesso Vela a servirsi di Spartaco, lo schiavo ribelle, per rappresentare l’insurrezione del popolo e la risoluta volontà di liberarsi dell’oppressore, in un parallelo che accomuna un evento del I secolo avanti Cristo e i moti rivoluzionari che circondarono quell’anno cruciale dell’Ottocento.

E di oppressori, nel 1848, in quella che da lì a poco sarebbe diventata l’Italia ce n’erano veramente troppi.

Ma Vincenzo Vela è anche l’autore di una descrizione intima e delicata che ha catturato la mia fantasia mentre immaginavo G. giocare con un cane. Non riuscivo a smettere di ricordare il ritratto della contessina Leopoldina d’Adda, figlia di quel Carlo d’Adda che durante la visita a Milano dell’imperatore Francesco Giuseppe e la moglie Sissi credette bene di gettare un busto di marmo contro il corteo regale. I black bloc non si sono inventati niente di nuovo.

Vincenzo Vela - Ritratto di Leopoldina d'Adda
Vincenzo Vela – Ritratto di Leopolda d’Adda, 1852-1854

Io, però, quando osservo quest’opera non vedo la figlia di agguerriti militanti. Mi soffermo, in realtà, sulla fattura della creazione e le soluzioni che l’artista adotta per cristallizzare un’immagine densa di quotidianità e naturalezza: la sedia troppo grande, l’esile ginocchio che spunta dalla gonna del vestito, il pizzo di Sangallo e la lunga fila di bottoni che chiude e orna un abito leggero, i piedi ciondolanti, i calzini che ricadono molli e la massa nervosa del cocker spaniel, tutta percorsa da un fremito che troverà pace solo a premio conquistato.

Nei dettagli, pezzi di puzzle che lo scultore incastra per consegnarci un piccolo marmo gonfio di umanità, io riconosco una cinquenne che tiranneggia divertita e amorevole il suo compagno di giochi con una spensieratezza e levità che solo i bambini sanno maneggiare. E che io vorrei tanto promettere alla mia minuscola nipote.