Penso a lei, alle sue mani nodose e al profumo della sua pelle. Ora mia nonna, la mia amata nonna con la quale condivido un pezzo di nome e di vita, è insistentemente nella mia testa.
L’ho persa quasi venti anni fa, ma noi c’eravamo perse già da tempo, lei nelle grinze della sua malattia, io nei cunicoli della mia adolescenza, per la quale producevo, e presto esaurivo, cumuli d’inutili affanni ed energie. Lei m’ha cresciuta. Lei con altre due donne dello stesso rame famigliare hanno allevato me, cucciolo malfermo di genitori impreparati. E hanno instillato se stesse nel mio corpo e nella mia memoria.
Quando mi accoccolo fra i ricordi che solo lei occupa mi sembra di poter ascoltare ancora la sua voce e percepire l’effetto tattile dei suoi capelli tra le dita. Interpretava per me delle nenie sempre diverse e per un lui distratto le canzoni di Mina, struggendosi di sincero trasporto. Allora non ne comprendevo il motivo, ma è bastato accumulare gli anni sul calendario e sganciarmi dal cieco affetto per capire. E struggermi con e come lei.
Era il mio rifugio, e forse io il suo. Sull’unico seno rimasto dopo il “brutto male” la mia testa trovava la pace, in una concessione intima che solo a me riservava, perché nipote unica e perché per tale condizione potevo incollarla ancora di più al suo venerato figlio.
Mia nonna aveva le stesse mani ossute della vecchia de Le Tre età di Klimt, in entrambe lunghe, percorse da vene tortuose e livide sotto una pelle sottile e diafana. Vorrei fosse solo lei ad avere questo specchio artistico, ma so che tutti i vecchi e tutte le vecchie arrivano a sviluppare le stesse periferie corporee. Anch’io le ho, già adesso. Io che nell’infanzia avevo le estremità simili a mio nonno – piccole e paffute dicevano, corte e tozze dicevo – ora manifestano una certa fragilità, somministrata a minuscole dosi dal tempo e da uno sport che in quest’ultimo lustro mi ha prosciugato il fisico e mi ha bonificato l’anima.
La prima volta che mi ritrovai davanti questo quadro fu quasi vent’anni fa e già avevo contratto il morbo della Wiener Werkstätte. Spesso lo vado a vedere, il dipinto: è conservato nel mio museo preferito e, purtroppo o per fortuna, ogni particolare mi riporta a lei. Lo osservo con un’attenzione quasi matematica che però non procura il distacco della scienza ma il trasporto della patologica ossessione. Una volta, nel descrivere l’opera a stanchi e irrequieti pulcini delle scuole elementari, mi sono dovuto produrre in mentali voli pindarici per distogliere il pensiero dal carico emotivo e ricacciare nei depositi oculari le lacrime.
La vecchia di Klimt volta la testa per celarsi al mondo; anche mia nonna a un certo punto ha preferito nascondersi. O forse è stata la malattia che la trascinava in universi sconosciuti, costellati di storie lontane e nomi ignoti, e la teneva esiliata e bandita dalla comune comprensione.
Era schiva, bellissima da giovane e mai prona al suo fascino: non si concedeva incursioni nel mondo della frivolezza, a differenza della sorella, ora splendida – e frivola – novantunenne.
Vorrei che fosse qui, ancora un po’ con me, per recuperare il tempo scivolato via, per carezzarle le guance e guardare quell’unghia difettosa, eredità di un trauma antico che come una molla mi attraeva e respingeva.
Ma lei non c’è; ci sono io, influenzata in un pomeriggio di quasi primavera che dovrebbe servirmi per scrivere di altre donne e che invece dedico a lei. Le riservo una porzione della giornata e tutto il mio amore, nella speranza di lasciarlo andar via perché per troppo tempo rinchiuso tra le pareti delle mie memorie, che seppur lievi riescono a essere ferocemente crudeli.