Lontana eppur vicina

Penso a lei, alle sue mani nodose e al profumo della sua pelle. Ora mia nonna, la mia amata nonna con la quale condivido un pezzo di nome e di vita, è insistentemente nella mia testa.

L’ho persa quasi venti anni fa, ma noi c’eravamo perse già da tempo, lei nelle grinze della sua malattia, io nei cunicoli della mia adolescenza, per la quale producevo, e presto esaurivo, cumuli d’inutili affanni ed energie. Lei m’ha cresciuta. Lei con altre due donne dello stesso rame famigliare hanno allevato me, cucciolo malfermo di genitori impreparati. E hanno instillato se stesse nel mio corpo e nella mia memoria.

Quando mi accoccolo fra i ricordi che solo lei occupa mi sembra di poter ascoltare ancora la sua voce e percepire l’effetto tattile dei suoi capelli tra le dita. Interpretava per me delle nenie sempre diverse e per un lui distratto le canzoni di Mina, struggendosi di sincero trasporto. Allora non ne comprendevo il motivo, ma è bastato accumulare gli anni sul calendario e sganciarmi dal cieco affetto per capire. E struggermi con e come lei.
Era il mio rifugio, e forse io il suo. Sull’unico seno rimasto dopo il “brutto male” la mia testa trovava la pace, in una concessione intima che solo a me riservava, perché nipote unica e perché per tale condizione potevo incollarla ancora di più al suo venerato figlio.

Le tre età della donna - Gustav Klimt
Gustav Klimt – Le tre età, 1905

Mia nonna aveva le stesse mani ossute della vecchia de Le Tre età di Klimt, in entrambe lunghe, percorse da vene tortuose e livide sotto una pelle sottile e diafana. Vorrei fosse solo lei ad avere questo specchio artistico, ma so che tutti i vecchi e tutte le vecchie arrivano a sviluppare le stesse periferie corporee. Anch’io le ho, già adesso. Io che nell’infanzia avevo le estremità simili a mio nonno – piccole e paffute dicevano, corte e tozze dicevo – ora manifestano una certa fragilità, somministrata a minuscole dosi dal tempo e da uno sport che in quest’ultimo lustro mi ha prosciugato il fisico e mi ha bonificato l’anima.

La prima volta che mi ritrovai davanti questo quadro fu quasi vent’anni fa e già avevo contratto il morbo della Wiener Werkstätte. Spesso lo vado a vedere, il dipinto: è conservato nel mio museo preferito e, purtroppo o per fortuna, ogni particolare mi riporta a lei. Lo osservo con un’attenzione quasi matematica che però non procura il distacco della scienza ma il trasporto della patologica ossessione. Una volta, nel descrivere l’opera a stanchi e irrequieti pulcini delle scuole elementari, mi sono dovuto produrre in mentali voli pindarici per distogliere il pensiero dal carico emotivo e ricacciare nei depositi oculari le lacrime.

La vecchia di Klimt volta la testa per celarsi al mondo; anche mia nonna a un certo punto ha preferito nascondersi. O forse è stata la malattia che la trascinava in universi sconosciuti, costellati di storie lontane e nomi ignoti, e la teneva esiliata e bandita dalla comune comprensione.
Era schiva, bellissima da giovane e mai prona al suo fascino: non si concedeva incursioni nel mondo della frivolezza, a differenza della sorella, ora splendida – e frivola – novantunenne.

Vorrei che fosse qui, ancora un po’ con me, per recuperare il tempo scivolato via, per carezzarle le guance e guardare quell’unghia difettosa, eredità di un trauma antico che come una molla mi attraeva e respingeva.
Ma lei non c’è; ci sono io, influenzata in un pomeriggio di quasi primavera che dovrebbe servirmi per scrivere di altre donne e che invece dedico a lei. Le riservo una porzione della giornata e tutto il mio amore, nella speranza di lasciarlo andar via perché per troppo tempo rinchiuso tra le pareti delle mie memorie, che seppur lievi riescono a essere ferocemente crudeli.

Domeniche gratuite, fatiche (piacevoli) assicurate

Mario-Sironi-Abbonamento-annuo-L-75-Popolo-dItalia
Mario Sironi – Abbonamento annuo L 75 – Popolo d’Italia

La prima domenica del mese, si sa, equivale a dire musei gratuiti.
Il tour de force è quindi inevitabile. Per immergermi nella cultura e considerato che ho un po’ di tempo in esubero prima di iniziare il giro vero e proprio, raccatto gli articoli di giornali che io e mio padre ci conserviamo e leggo quello di Francesco Erbani, apparso giovedì 31 dicembre su La Repubblica. Doveva essere il primo di una serie che prevedevo più sostanziosa e invece è stato l’unico, perché alla fine della lettura più che immersa nella cultura mi sentivo annegare nella bile (il testo-denuncia riguarda i lavori di viabilità a ridosso de La Rotonda, villa palladiana in provincia di Vicenza, e su cui credo tornerò più lungamente).

Butto giù un po’ di pensieri e l’orologio mi segnala che dall’anticipo al ritardo sulla tabella di marcia è stato un attimo. Mi svesto e vesto, salto in bici e mi godo una pedalata rilassata attraverso la città che ancora dorme e che senza rendersene conto è sfiorata da una luce calda e magica. La luce accarezza Roma e Roma accarezza me in uno scambio che mi fa dimenticare le sue molestie e arroganze quotidiane.
Supero piazze e vie fino ad arrivare a Porta Pia dove mi attende una passeggiata guidata alla scoperta della storia municipale post breccia. Raggiungo il punto d’incontro accaldata e affaticata: il falso piano tra Castro Pretorio e l’ambasciata inglese mi prova, oltre al fatto che indosso abbigliamento da trekking come se l’apocalisse metereologica mi aspettasse al varco. Solo a me, chiaramente.

Lego Frankenstein (perché assemblaggio scoordinato e sconsiderato di altri sgangherati velocipedi), procedo alla registrazione e aspetto la mia omonima.

Iniziamo. Non posso non rimanere rapita dagli eventi e dai racconti in un flusso di immagini e immaginazione che la storica, nonché nostra guida, aizza nella mia testa. È proprio brava, bisogna riconoscerglielo: teatrale nell’esposizione narra di cronologie lontane eppure emozionalmente vicine.

Dopo due ore insieme al Viminale ci salutiamo tra baci, abbracci e complimenti; a piedi, sempre io e la mia omonima, ci dirigiamo alle Terme di Diocleziano. Lì la mostra di Moore è agli sgoccioli e non so se per questo o perché è gratuita, ci ritroviamo assiepate insieme a tanti altri visitatori. Tra cui mio padre. Sì, mio padre, il quale non sapendo della mia presenza in quel luogo mi manda un messaggio con il seguente testo: “Le sculture di Henry Moore insieme alle tombe, eccole! Ciao!”
Non posso crederci. Lo cerco, lo raggiungo, lo bacio e me ne vado.

Torno a contemplare non le sculture, ma i disegni di un artista che fino a qualche anno fa non volevo ascoltare. Poi l’ho visto alla Cà Pesaro di Venezia e da quel momento lo strazio ogni volta che lo incontro. Uno strazio d’amore che lui stesso alimenta quando scrive e io leggo: “Ho scoperto, quando disegno, che posso trasformare ogni piccolo scarabocchio, sgorbio o sbaffo in una madre col figlio.” Le opere su carta sono intense, mentali, intime. Avverto chiaramente che potrei emozionarmi e gioco la carta del cinismo con l’omonima che quando vuole sa essere più cinica di me.

Affamate e abbastanza provate ci separiamo poco dopo l’uscita, non senza uno scambio di sguardi e parole. Poi lei verso gli autobus io a recuperare Franke, abbandonata a guardare l’inizio di Via Nomentana con il suo viale alberato e le carreggiate semi deserte.
La slego e, senza muovere i pedali, lascio che la discesa mi conduca diretta e senza fatica a Villa Torlonia, dove in uno dei complessi espositivi in essa contenuti, si srotola l’impegno di Mario Sironi quale illustratore per la rivista mussoliniana Il popolo d’Italia.

Io amo Sironi. Anche in questi lavori così fastidiosamente faziosi. Del resto non poteva essere altrimenti: fascista della prima ora, affida tutte le fiducie di uomo, artista e civis alla nuova politica.
Fascista sì, ma non intriso del fascismo più becero e comunemente inteso. Sironi nelle parole di Mussolini intravede un nuovo e condivisibile risorgimento italiano, e storico e artistico, il cui maggiore beneficiario sarebbe stato il popolo verso il quale indirizza la sua produzione grafica. Nelle illustrazioni trasla lo stesso linguaggio dei dipinti e delle opere murarie, gonfie di volumi, essenziali, nobili e modernamente classiche o classicheggianti.

Tante le carte appese al muro o sistemate negli sparuti tavoli delle sale. Troppe, per me già satura di immagini. Mi imbacucco per l’ennesima volta e ripercorro la Nomentana al contrario, in salita quindi. All’altezza di Porta Pia anelo un bikini. Ho invece 5 strati di tessuto sintetico. Sintetico, tecnico e caldo.

A casa la doccia, il ristoro e l’attesa della sorella amata che mi accoglie con un mini cannolo siciliano. La giornata potrebbe finire così, piena di regali e momenti speciali. Potrebbe. Ma questa prima domenica dell’anno mi consegna l’ultimo ed ennesimo dono: la nipote in braccio e la melodia della sua risata nelle orecchie.

 

Un cane per amico

Lei dorme mentre io mi guardo e studio gallery infinite di Amstaff e Bull Terrier.

Non c’è nulla da fare, per quanto sia un’amante degli animali in generale e dei cani in particolare, i molossi nello specifico sono la mia passione. Mi piacciono i loro muscoli, così evidenti e tesi sempre e comunque. Ammiro il loro portamento e i loro denti, vere e proprie armi se affidate a padroni sconsiderati e assenti. Mi conquista il loro affetto, incondizionato e puro, la loro dolcezza e la fedeltà.

Vorrei tanto in questo momento che un cucciolo o un adulto a quattro zampe si regalasse e affidasse a me. Lo desidererei incondizionatamente per me e ancor più smodatamente per lei, lieve batuffolo assopito sulle mie gambe e sul mio busto.

Da piccola ho richiesto incessantemente un animale, ma i miei, nonostante l’esasperazione cui li portavo, generavano sempre la stessa risposta, automatica e diplomatica: non c’erano sì e no, c’era solo ‘adesso vediamo’. Dopo l’ennesimo ‘adesso vediamo’ capii che non avremmo mai visto nulla.

Ho dovuto presto metter via i miei sogni di gloria con un cane e adattarmi a quello che passava il convento.

Il convento passava pesci rossi. A volte erano anche grigi (bruttissimi e anonimi, poverini) o bianchi. Amabili creature della natura, certo, ma non quello che io bramavo.

Mia sorella, invece, ha mantenuto sulla questione, almeno fino un determinato momento, un atteggiamento defilato. E mentre lei si disinteressava, io accantonavo, per poi abbandonarla definitivamente, l’idea di un cane a casa.

Le antiche fiamme si riaccesero quando nelle nostre vite arrivò un bull terrier. Fu amore. E io ricominciai ad esser ostaggio, ancora e ancor più risolutamente, di quella mai sopita volontà.

Ho superato i natali necessari per sentirmi adulta; ora ho la maturità e l’altruismo per possedere un cane. Lo so, lo sento.

In tutti questi miei vagheggiamenti ce n’è uno solo per lei, prezioso regalo atterrato da poco nella mia (stramba) famiglia.

Sarebbe bello e pedagogicamente sano se il suo itinerario emotivo attraversasse i sentieri del rispetto e della cura, anche grazie a un amico speciale, senza il dono della parola ma con quello del sempiterno attaccamento.

Ed è per questo che stasera io mi arrampico su queste dolci colline di progetti. È il suo caldo corpo sul mio che mi porta a credere che questo amico speciale sia necessario, perché la sollecitudine di un alleato peloso è il lumino acceso nella stanza dei bambini, guida e insieme sostegno.

Ricordo esattamente quando lessi i due libri che contribuirono a livellare il mio desiderio su uno strato di convinzioni già esistenti: nel 2012 Cane e padrone di Joseph Conrad, a febbraio 2015 Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Nel primo testo il legame tra bipede e quadrupede è lampante già dal titolo. Il loro connubio e la loro sintonia non può che ricordarmi la corrispondenza affettiva tra Bendicó e il Principe di Salina, coprotagonisti (sì, per me sono entrambi attori principali) del secondo. Ho divorato Il Gattopardo in poche ore e a distanza di mesi lo sfoglio solo per il gusto di farlo, perché scritto con una ricchezza, pienezza e consapevolezza (la fiera della doppia z, lo so) linguistica e visiva che straripa e riempie il mio personale baule di parole e immagini.

E perché vergato su una tela il cui sfondo è quell’impasto di speranze e delusioni che è stato il Risorgimento italiano. Un segmento del passato che ho imparato ad amare solo negli ultimi anni grazie ad artisti che si sono rivelati portavoce di ideali, cronologie geografiche e pubbliche celebrazioni.

Tra questi, Vincenzo Vela, scultore ticinese che nel 1848 combatté le Cinque giornate di Milano. Lui come altri politicamente coinvolti, prolungava il suo impegno civile e culturale nelle sue opere. Fu lo stesso Vela a servirsi di Spartaco, lo schiavo ribelle, per rappresentare l’insurrezione del popolo e la risoluta volontà di liberarsi dell’oppressore, in un parallelo che accomuna un evento del I secolo avanti Cristo e i moti rivoluzionari che circondarono quell’anno cruciale dell’Ottocento.

E di oppressori, nel 1848, in quella che da lì a poco sarebbe diventata l’Italia ce n’erano veramente troppi.

Ma Vincenzo Vela è anche l’autore di una descrizione intima e delicata che ha catturato la mia fantasia mentre immaginavo G. giocare con un cane. Non riuscivo a smettere di ricordare il ritratto della contessina Leopoldina d’Adda, figlia di quel Carlo d’Adda che durante la visita a Milano dell’imperatore Francesco Giuseppe e la moglie Sissi credette bene di gettare un busto di marmo contro il corteo regale. I black bloc non si sono inventati niente di nuovo.

Vincenzo Vela - Ritratto di Leopoldina d'Adda
Vincenzo Vela – Ritratto di Leopolda d’Adda, 1852-1854

Io, però, quando osservo quest’opera non vedo la figlia di agguerriti militanti. Mi soffermo, in realtà, sulla fattura della creazione e le soluzioni che l’artista adotta per cristallizzare un’immagine densa di quotidianità e naturalezza: la sedia troppo grande, l’esile ginocchio che spunta dalla gonna del vestito, il pizzo di Sangallo e la lunga fila di bottoni che chiude e orna un abito leggero, i piedi ciondolanti, i calzini che ricadono molli e la massa nervosa del cocker spaniel, tutta percorsa da un fremito che troverà pace solo a premio conquistato.

Nei dettagli, pezzi di puzzle che lo scultore incastra per consegnarci un piccolo marmo gonfio di umanità, io riconosco una cinquenne che tiranneggia divertita e amorevole il suo compagno di giochi con una spensieratezza e levità che solo i bambini sanno maneggiare. E che io vorrei tanto promettere alla mia minuscola nipote.